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Storia di Jas, dall’altra Olanda

Il nome doppio, formato da un nome di donna, Marieke e da un nome di uomo, Lucas, riflettono il sentire dell’autrice che desidera non essere etichettata né donna né uomo, poiché lei non si sente né l’uno, né l’altra: Marieke Lucas Rijneveld si definisce non binaria. Le identità di genere non binarie – secondo Wikipedia – sono tutte quelle identità di genere che non corrispondono strettamente e completamente al genere maschile o al genere femminile.

La scrittrice viaggia su questi binari. Alla ricerca di un’identità. La sua. Che non ha modelli o archetipi da rispolverare sotto la coltre del passato e delle mitologie. Va tutta scoperta. Forse addirittura inventata. Credo nasca così questo romanzo. Il disagio della sera (Nutrimenti)non è autobiografico ma vi sono dentro molti aspetti, episodi e situazioni che provengono dalla vita della scrittrice.

Il tempo della scrittura è stato lungo, dice Marieke Lucas: 6 anni. E noi lettori lo capiamo, perché ci soffermiamo sulle pagine, sulle immagini, sulle parole cercando di afferrarne la poesia, nonostante la crudeltà e la crudezza di ciò che viene narrato, nonostante il punto di vista insolito che viene richiesto per andare avanti. È una questione di genere. Di appartenenza. Ecco qui tutto questo sparisce e ci vuole tempo anche per il lettore per fare spazio a questa nuova visione. 

La citazione in esergo è un invito a saper accogliere senza pregiudizi e senza giudizio il nuovo della vita: è una poesia di un grande scrittore nederlandese contemporaneo, Jan Wolkers: «Sta scritto: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose!” / ma gli accordi sono fili ai quali è steso il dolore, / Folate taglienti frammentano la fede / Di chi vuole sottrarsi al crudele principio. / La pioggia gelata pesta i fiori in vitrea poltiglia, / Una canaglia si asciuga il pelo nella violenza».

Un prezzo alto da pagare, un mondo nuovo da narrare. Contenuti e parole da trovare.

La protagonista è una pre-adolescente alle prese con la crescita, la morte incidentale di un fratello, i genitori anaffettivi, il padre brutale e la madre risucchiata nel suo dolore. Una crescita senza guida, o quasi, nella campagna olandese in mezzo alle mucche, i rospi e i conigli. E niente che le assomigli. Allora la protagonista cerca le somiglianze con chi è descritto come un mostro dalla maestra, Adolf Hitler, e che come lei non piange mai perché i cattivi non piangono mai le dirà la maestra.

«Io gli somiglio mi sono detta e non deve saperlo nessuno» (p. 54) Purtroppo, nessuno le ha spiegato che lei non c’entra niente con la morte del fratello, così cresce dentro di lei la visione di un sé mostruoso. E con questo segreto infilato a forza dentro di sé, fin dentro nelle viscere, la piccola Jas (giaccone in nederlandese) decide di non togliersi più il giaccone. Non vuole essere vista per quello che è. Vuole proteggere quello che è. Vuole capire quello che è. Le sembra che all’esterno a nessuno interessi quello che è: «Il mio cuore non lo conosce nessuno. È ben nascosto sotto al giaccone, alla pelle e alle costole. Dentro la pancia della mamma è stato importante per nove mesi, ma da quando sono uscita nessuno si preoccupa più di sapere se fa abbastanza battiti all’ora.» (p. 52).

L’innocenza è persa nelle lacrime che non sono venute per la morte del fratello, nei giochi sessuali col fratello Obbe, la sorella Hanna, l’amica Belle, i rospi, i criceti. I genitori, è come se non ci fossero, il lutto familiare è invece sempre più opprimente e presente, il giaccone sempre più indispensabile. Là sotto, Jas si sente al sicuro e in grado di procedere con la sua ricerca: «”Un giorno voglio raggiungere me”, dico sottovoce, e premo la puntina nella carne tenera dell’ombelico.» (p.86).

Una determinazione che la distingue dalle sue amiche e dal mondo esterno: «Non desidero nemmeno i ragazzi, ma me stessa. Cose del genere, però, non devi mai rivelarle a nessuno, come neanche il pin del tuo Nokia, così nessuno ti può craccare quando meno te lo aspetti» (p.111).

Il disagio della sera è la paura del buio, della morte, quando le domande si palesano con urgenza: «Che la morte non è entrata solo nei nostri genitori, ma anche in noi? Che continuerà sempre a cercare un corpo o un animale e non avrà pace finché non avrà preso qualcosa? Che noi potremmo benissimo scegliere un altro finale, diverso dai libri che conosciamo?» (p. 238).

La piccola protagonista si isola sempre di più dagli altri. Il giaccone diventa il suo scudo, ma anche la sua tomba. Avverte che solo isolandosi dal resto del mondo l’identità si svela. Anche a costo di dover rischiare la morte. Una ricerca identitaria massima. Un atto estremo. Il vortice è tutto rivolto verso il basso, verso gli inferi, verso le tenebre. Dentro le proprie viscere che trattengono tutto. La stipsi ne è il risultato. L’episodio del padre e del sapone è una chiara denuncia di violenze subite che sanno di stupro e dolore inflitto.

Meglio la puntina nell’ombelico allora: fa male, ma è il male che scelgo io, non quello che m’infilano a forza dentro con la scusa di curare un altro male insito dentro di me, sembra volerci rivelare la giovane Jas. La morte diventa un desiderio morboso segreto, nutrito dalla carenza delle parole amorose genitoriali: «non so cosa mi dia più ansia: sentire il mio respiro sulla pelle o l’idea che un giorno non respirerà più, e di non sapere quando succederà» (p.115). Chiede aiuto ai rospi che però non riescono a invertire la sua rotta: «voi rospi sapete piangere, o quando siete tristi andate semplicemente a nuotare? Noi le lacrime le abbiamo dentro, mentre forse voi le cercate fuori, per affondarci» (p. 122) Come se fossero loro le lacrime del lago che si è preso il fratello amato.

Un romanzo di formazione che scandaglia un mondo cinico e grezzo, inadatto a una crescita sana e solare, una vita di contadini dove la Parola scritta è una sola: quella della Bibbia. Un romanzo di de-formazione: la mancata educazione sforma il contorno delle cose, storpia il senso delle parole e scardina le fragili intelaiature delle relazioni umane.

Il gelo del ghiaccio dei laghi olandesi non accoglie i pattini d’argento, romanzo icona dell’Olanda con lieta fine, ma la morte di bimbi indifesi. Un inno capovolto. Un cuore rovesciato. Marieke Lucas ha trasmesso il suo disagio. Il lettore ne rimane spiazzato. Dis-armato si riarma di parole, quelle che sono capaci di tessere nuove traiettorie, che però precludono, come condicio sine qua non l’ascolto: «Sentite, io non so cos’è l’amore, ma so che ti fa saltare in alto, che ti fa nuotare più vasche di quante potresti normalmente, che ti rende visibile.» (p. 123).

Perché è vero, solo le connessioni, ovvero le relazioni, costruiscono ponti e consentono all’essere umano di conoscere l’amore. Che non è la religione, ma che potrebbe essere Dio. Che non è per forza l’amore binario, ma l’amore tout court. Fuori dagli schemi. Dagli stereotipi. Dalle etichette. Un dentro che è un fuori e un fuori che è un dentro. Come le lacrime dei rospi.

Un romanzo femminista intersezionale che racconta di esperienze e modi di sentire ancora mai narrati. Il disagio della sera è il debutto della scrittrice nederlandese ventinovenne Marieke Luca Rijneveld. È stato un successo nei Paesi Bassi, ma anche all’estero, già tradotto e pubblicato in Usa, Gran Bretagna, Germania, Corea e in corso di traduzione e pubblicazione  in molti altri paesi.

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