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whale

La Corea del Sud con i suoi autori e intellettuali sembra in grado, non da oggi, di fotografare al meglio il nostro mondo come le sue inquietudini, tensioni, scarti, le due domande spesso irrisolte, in bilico tra la dimensione del singolo e la ricerca di rapporti. Non a caso i suoi film trionfano, Parasite su tutti, e colpiscono sia dolcemente che con crudeltà, potere e sesso compresi, e forse una spiegazione sta nella particolare sensibilità di quel popolo e nella capacità di raccontare storie, spesso universali. 

Una conferma di come questo universo lontano sia vitale e parli a tutti  (o almeno a molti) arriva dal libro “Whale” di Cheon Myeong-Kwan, pubblicato nel 2004 e solo ora tradotto in italiano e pubblicato da Edizioni e/o. Un’opera complessa, troppo facile catalogarla come un “divertimento” dello scrittore cui i personaggi sembrano avergli preso la mano, una saga, come una stravaganza di sogni e tenacia più forti di tutto.

C’è una profonda empatia, anche negli eccessi – come in Parasite appunto, anche se il libro è di molto precedente- una ricerca di poesia, attenzione e ammirazione per la forza delle donne, nel bene e nel male; un linguaggio solo apparentemente semplice. Il susseguirsi di eventi, anche incredibili, è in fondo solo un pretesto, la domanda che vi fa l’autore di lasciarvi andare, tornando un po’ bambini, e come nelle favole di una volta la paura è elemento di crescita ed il grottesco strizza l’occhio alla critica sociale verso un Paese che, come il Giappone o Taiwan, è cresciuto tumultuosamente, tar profonde ingiustizie, passando anche attraverso dittature e che fatica a riconoscersi.

Romanzo di esordio di Cheon, molto amato nella sua patria, con echi di anche fiabe russe o giapponesi, “Whale” non ha perso forza rispetto a quel lontano 2004, anzi è più che mai attuale. E ci dice anche che nessuno scompare finché il suo ricordo vive.

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