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Le parole che i nostri occhi fanno viaggiare

Uno dei miei ricordi più belli, è un momento di danza all’interno di un laboratorio guidato da Julie, della compagnia di Pina Bausch. L’inizio. Lavoro di improvvisazione e composizione. Dovevamo pronunciare il nostro nome e abbinarlo a un gesto, un movimento, poi Julie li cuciva insieme attraverso le note delle variazioni Goldberg. Era il nostro appello. Il nostro modo di presentarci, di relazionarci, di tessere nuovi legami in un luogo che era “scuola”, nel suo significato originario: tempo libero.

Per questo motivo il titolo di questo libro di Alessandro D’Avenia mi ha colpito. L’appello (Mondadori) andava dritto nella mia sfera privilegiata: nella danza e nel poco di me che se ne nutre. Poi, come l’autore, amo molto l’origine delle cose, le radici delle parole, così non potevo non rimanere incantata dal narratore, l’insegnante cieco che condivide la stessa passione: «Ho la fissazione dell’etimologia: solo le radici fanno crescere le parole forti e rigogliose.» (p. 25)

Questo amore passionale per il proprio mestiere che usa le parole per districare quell’ammasso informe della conoscenza incomincia proprio con il vocabolario della scuola. Eccomi di nuovo protagonista: io lettrice, mi vedo in aula con i miei allievi ad una prima lezione d’inglese: classe, aula, appello. Alla parola classe che si rifà a un linguaggio militare, preferiamo la parola aula: «I Greci chiamavano aulos il flauto, l’aula è la cassa di risonanza in cui la vita soffia le storie.» (p. 25).

L’appello che appartiene ugualmente al gergo militare, la chiamata alle armi, ha un sapore diverso: «se al verbo latino pello, “spingere”, mescolo la preposizione ad-, “verso”, do vita al composto AD-PELLO, “spingere verso”, ossia l’azione compiuta di una donna quando dà alla luce.» (p. 36) Infatti, si tenta qui di spiegare come «salvare un nome. […]. Le dittature mirano a eliminare le differenze, nelle dittature infatti si usano tante uniformi e spariscono i nomi propri.» (pp. 32-33).

Ma chi è questo narratore, professore di scienze cieco che viene chiamato per una supplenza annuale in una classe di quinta superiore di dieci alunni problematici e considerati spacciati da tutti, genitori e professori in prima linea? Già il nome è tutto un programma: Omero Romeo. E qui l’appello necessita una variazione (come quelle di Bach): nome del più grande scrittore forse mai esistito, forse cieco, siccome si crede che fossero tanti gli Omeri, nel cognome è di nuovo contenuto anagrammato il suo nome e non solo.

Romeo ci richiama un personaggio shakespeariano e le parole che si trasformano nel tempo delle parole letterarie. Nomi carichi di vita, di storia e movimento. Di tempo: «Tempo e temporalità sono due cose diverse. La temporalità è una qualità che hanno tutte le cose: prima o poi si consumano, si esauriscono, finiscono. Il tempo è invece la loro fibra, la loro carne.» (p. 157) Di viaggio. Il viaggio, come veicolo di conoscenza, non è solo quello compiuto da Ulisse, l’eroe per eccellenza, ma dalle parole che continuamente si muovono per giungere al nostro cuore. Forse è più giusto dire: le parole che i nostri occhi fanno viaggiare. Meglio ancora: mentre i nostri occhi le scorgono, si aprono mondi e si manifestano le nostre emozioni, capaci forse di gettare ponti in grado di stupirci, nel tentativo di cercare una relazione con quel passato. Ma l’appello non lo fa lui. Lo fanno i ragazzi. Perché la scuola di questo insegnante ha come protagonisti loro: gli alunni.

Completamente spiazzati, la parola che inizia il loro racconto è il loro nome. Non stiamo facendo addestramento. No. Non siamo tutti uguali. Ognuno è un mondo a sé, ancora da espandersi, ancora da venire alla luce. Lo stupore di ognuno di loro li sorprende in prima persona, nemmeno loro si aspettavano il fluire della narrazione. E attraverso cosa? Il proprio nome. Uscire dal sé chiuso e aprirsi all’esterno.

Un processo impossibile in una scuola fatta di caselle, programmi e stereotipi, dove l’individuo non impara, ma inghiottisce nozioni da ripetere a pappagallo, senza afferrarne il significato, solo per superare gli esami e inserirsi in una società senz’anima. Ecco, L’appello parla di un sogno, quello di costruire un’aula (la cassa di risonanza) dove più voci possano esprimersi: «al nostro nome rispondiamo: PRESENTE! perché accende tutto il nostro destino come un interruttore fa con la luce.» (p. 36) Un luogo dove il professore è un vero maestro, che non ha l’obiettivo di finire il programma e inzeppare i cervelli dei ragazzi di dati e saperi tecnici. Un luogo, dove l’anima possa essere vista.

Vedere l’anima significa vedere l’altro, per vedere l’altro devo poterlo vedere: aprire gli occhi e il cuore. «Ciascuno occupa uno e un solo posto e non è sostituibile da un altro, e le relazioni, tra gli elementi e tra noi, non sono altro che lo scambio della propria vita con quella degli altri che ne hanno bisogno, e viceversa.». (p. 66)

Un maestro è colui che si protende verso i suoi discenti senza imporsi, tendendo una mano senza mai usare la voce per dettare il proprio sapere, è una sorta di apri-porte. Nel libro, il maestro è cieco e apre gli occhi ai suoi allievi: «Che cosa avrei visto se non fossi stato cieco? Quello che vedono tutti. […] nessuno sa se Omero sia veramente esistito ma si racconta che fosse cieco, perché solo un cieco avrebbe potuto raccontare le cose come lui.» (p. 32)

Perché il vero segreto della vita è essere, o tendere a essere, e per essere dobbiamo stare insieme: «Le relazioni sono fatte come i puzzle, solo con gli incastri nei vuoti e si stringono legami veri.» (p. 35) Andare verso di loro, significa andare verso il futuro, verso la verità: «E gli adolescenti sono come mastini della verità, quando ne sentono l’odore non mollano più la presa e mordono finché non se ne portano via un pezzo.» (p. 31) Da imparare abbiamo tanto, ma fondamentalmente basta fare nostro un solo insegnamento: «il metodo di rimanere nel tempo superandolo: fermarlo proprio lasciandolo scorrere, come una clessidra talmente lenta che sembra ferma.» (p. 157)

L’appello è un libro che racconta come la relazione che cresce giorno dopo giorno in un’aula sia il vero senso della scuola oltre le mura della scuola e la fine temporale della scuola, la maturità. Ovvero: «Sono a casa mia con i miei studenti. Non è me che cercano, ma quello che io desidero per loro, che costruisce le vere mura di quella cosa che chiamiamo scuola, che è ovunque ci siano persone strette da legami invisibili che spingono a cercare insieme il senso delle cose.» (p. 243)

L’appello è un romanzo che parla di una scuola diversa, ma getta anche un ponte per una vita diversa, fatta di «vivi di fame» (p. 97) e non di morti di fame, dove si ribaltano i principi dello stare insieme che evocano un’economia della relazione. Infine una nota sui crediti: due autori russi: Pasternak e Grossman. Due opere: Il dottor Zivago e Vita e destino. Un solo amore per la letteratura. Un solo tempo. Oltre la temporalità. Verso Shakespeare. Verso Omero. Verso il passato. Verso il futuro. Verso l’amore. Verso Dio. Certo per chi non crede, Dio si sgretola in qualcos’altro, ma la relazione è comunque possibile.

L’anima è prima di tutto umana, e dell’universo figlia sovrana.

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