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Napoli 1940: un omicidio e la Storia intorno

 Dopo  Il delitto di via Crispi n. 21 con Il delitto di Vico San Domenico Maggiore (Time Crime), Lidia del Gaudio ci riporta a Napoli e a un altro delitto.

Anche in questo caso è decisamente importante il contesto in cui si svolgono gli avvenimenti. 1938 nel precedente; 1940 in questo. In entrambi troviamo l’insofferenza del commissario Sorrentino, combattuto tra il desiderio di essere amato e la voglia di solitudine, che preferisce le pasticcerie con i babà e le sfogliatelle ai monumenti, insofferente nei confronti del regime fascista sempre più opprimente ed invasivo, che addirittura arriva a rinominare il tennis definendolo pallacorda,  preoccupato per le intenzioni belliche di Mussolini, perplesso di fronte a cosa sia la verità visto che ognuno ha la sua. Quanto a lui ritiene la casualità e la fortuna elementi essenziali e risolutivi di una indagine.

In entrambi i romanzi troviamo la simpatica descrizione delle vie di Napoli da Via Medina a Via Monteoliveto, da la calata Trinità Maggiore a piazza Gesù Nuovo, alle strade in cui si vendono strumenti musicali;  Corso Vittorio Emanuele;  le curve spettacolari sul Golfo volute dai Borboni; il rione Carità e Mergellina,  i quartieri spagnoli con la trattoria a Montecalvario e i purpetielli alla Luciana, le melanzane a scarpone, i bucatini allarpiati, sgli paghetti con chiapparielle ed olive; il caffè che, grazie all’autarchia è un surrogato, ovvero una fetenzia; il dialetto caratteristico che intercala le 290 pagine e le rende attraenti ai lettori: “nu guagliuncello; nu scugnizzu“ (che senza voler anticipare alcunché è al centro del noir ), “abbuffato di mazzate; comprare per abbuffarsi l’anima”, “pucundria“, “fare ammuina“.

Ma  se questo può essere considerato un aspetto importante, non è l’aspetto principale. A mio avviso ci troviamo di fronte all’importanza che assume la descrizione del contesto , ad esempio l’immininenza della guerra prossima che sconquassa il cervello.  Una guerra che la propaganda descrive e prospetta veloce vittoriosa, addirittura conveniente e che invece viene vissuta, da molti come un futuro incerto. 

In parallelo la descrizione della Napoli con le voci dei bassi; i panni stesi da un palazzo all’altro: descrizione di umanità; i panieri calati per fare la spesa. Napoli: due città in una, da una parte quella fredda per disciplina di regime; dall’altra quella popolare delle autentiche tradizioni.

Lidia Del Gaudio ci porta a fare i conti con l’omicidio, cranio fracassato e un paio di forbici nel basso ventre,  di un chirurgo stimato. Un omicidio che viene, volutamente mascherato da suicidio rendendo complessa un’indagine che non deve urtare la sensibilità del potere costituito visto che il chirurgo assassinato  appartiene agli ambienti della Napoli/bene: ricco, di una ricchezza senza senso, fine a se stessa;  residente in un palazzo pieno di opere d’arte e collezionista di queste; marito di una donna nobile; promotore di associazione culturali ed attività filantropiche per raccogliere fondi a sostegno di strutture ospedaliere per infanzia e maternità.

Oltre al commissario, ed all’assassinato anche altre  figure assumono caratteristiche di rilievo, come il questore, il maggiore Salviati, organico al regime, che insiste sull’importanza di infondere tranquillità alle persone in un momento difficile, evitando allarmismi: trovare un colpevole, anche un capro espiatorio, è ciò che serve agli apparati investigativi del regime.

Non solo figure umane: quanto descritto ci porta a conoscere la tradizione napoletana collegata e funzionale all’esaltazione della dottrina fascista che deve formare le future classi dirigenti e tendere “al cameratismo”. Una cultura fascista che ha al suo servizio insegnanti che non lasciano spazio ad alcuna discussione critica. Insegnanti e uomini di cultura che hanno perso la dignità per porsi al servizio del nuovo regime.

Un’indagine che risulta un complicato rebus da risolvere. Reperti archeologici, eredità, onomastici da festeggiare e per finire la dichiarazione di guerra con la quale il commissario, e non solo lui, ammette di vivere in un’epoca sbagliata.

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