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I disertori di Napoleone, tra hascisc e Liguria

Il cannocchiale del tenente Dumont di Marino Magliani (L’Orma editore) non è un romanzo ma il romanzo al quale Magliani ambiva fin dal 2001, da quando, cioè, gli balenò, per la prima volta, l’idea di questa fantastica epopea non priva di agganci storici e politici. Si tratta di una costruzione narrativa estremamente raffinata, polifonica e policromatica, in cui elementi, stilemi e tecniche narrative (cronache, lettere, documenti, testimonianze, appunti di diario e dispacci) concorrono a mantenere viva l’attenzione del lettore, in una dimensione di costante e tesa aspettazione.

Siamo nell’agosto del 1799 sulla costa africana, alla fine della campagna di Napoleone in Egitto, e i tre protagonisti, il Capitano Lemoine, il tenente Dumont e il soldato semplice Urruti, che in Africa hanno conosciuto una nuova sostanza, capace di lenire i dolori e le sofferenze della guerra, l’hascisc, diventano, a loro insaputa, oggetto di uno esperimento sanitario, orchestrato dal dr. Zomer, che mira a individuare gli effetti della droga sugli abituali consumatori. Ritornano, quindi, in Francia a bordo della Carrere insieme agli scienziati e agli studiosi che avevano accompagnato Napoleone nella sua campagna militare. Che Zomer sia olandese di origine non credo sia casuale (sempre che in arte ci sia qualcosa di casuale), dal momento che sarà una delle voci narranti attraverso le lettere e le relazioni che invierà al suo amico e mentore, il dottor Dominique Larrey e visto che Marino Magliani, ligure di nascita, da tempo ormai vive a Ijmuiden sulla costa olandese, in un paesaggio marino mutevole, sabbioso e spazzato dal vento, così diverso da quello scabro e ruvido dell’entroterra ligure.

Torniamo però, alla vicenda narrata. Dopo la battaglia di Marengo (1800), i nostri tre (anti)eroi decidono di disertare, stanchi delle battaglie, della polvere ingoiata e del sangue versato, e attraverso i monti e le colline decidono, su consiglio del Capitano Lemoine, di raggiungere Porto Maurizio per imbarcarsi…

Inizia così la loro avventura che assume a seconda dei casi connotazioni epiche, elegiache o più raramente idilliche. Vale la pena sottolineare che per i tre protagonisti disertare non vuol dire abbandonare la battaglia – che del resto si era conclusa brillantemente – o l’uniforme ma scrollarsi di dosso la storia con i suoi oneri e le sue responsabilità per inseguire un miraggio, la libertà di una vita fatta di scelte consapevoli e autonome. Non a caso Magliani lo scrive a chiare lettere nel corpo del romanzo e lo riporta nel risvolto di copertina:

Perché disertore non significa mica sbandato, uno sbanda e bene o male si risolve, ma disertare è qualcosa che non finisce, diventa una missione, una carriera. Un grado.

Non è un caso che il loro viaggio non abbia una conclusione, che la meta cambi continuamente, confondendosi con il paesaggio in uno spostamento continuo di confini, orizzonte e prospettive. Il tema centrale del libro è la fuga: dall’esercito, dalla storia, da sé stessi in cerca di una pace materiale e spirituale, un sogno che per un certo periodo i nostri tre protagonisti si illudono di aver individuato nell’hascisc, finché il capitano Lemoine, custode di un segreto che verrà svelato solo verso la fine, con quel suo linguaggio sapienziale, di uomo colto ed esperto della vita, dice rivolgendosi a Urruti: Non esistono sogni, basco, che non siano già dentro di noi.

Urruti è un uomo duro, spigoloso, abituato alla fatica, capace anche di commettere un omicidio, ma leale e devoto nei confronti del suo capitano di cui condivide il segreto e a cui ha giurato assoluta fedeltà. L’eroe, o meglio l’antieroe, eponimo, Dumont, invece, è un uomo buono, sensibile, capace di sentimenti delicati (come si nota nell’episodio del lebbrosario), che finisce col monopolizzare il cannocchiale fino ad entrare in simbiosi con lo strumento ottico che all’inizio gli consente di ingrandire e accorciare la realtà, come risulta da questo bellissimo passo: 

   Nella gabbia azzurra volteggiano due poiane, l’alba è uscita da una rupe rossa di scaglie e argilla, il giorno rilascia i soliti voli di farfalle bianche, prende una confidenza, fino ad assorbire la patina di rugiada, e lentamente nel cannocchiale la valle si scuoia come una biscia.

E quando la realtà lo deluderà, Dumont non abbandonerà il cannocchiale ma lo userà ancora senza mettere più a fuoco, per vedere le cose offuscate, tremolanti. Il segreto a cui abbiamo accennato conferisce un pizzico di suspense alla narrazione che nella parte conclusiva diventa decisamente più romanzesca.

Il vero protagonista del romanzo rimane, comunque, il paesaggio ligure, tanto caro a Magliani, un territorio fatto di gole, di dirupi, di rocce scoscese, minacciato da nemici, abitato da un’umanità che tira avanti con i denti la propria misera esistenza, esposta alle malattie e ai pericoli tanto che persino la morte viene vista come una consolazione. Non sbaglia chi ha definito il romanzo di Magliani “una grande apologia della sconfitta e della pietà”. 

Un vapore annunciava qualcosa, e dietro il buio li aspettava l’aurora degli ulivi. Sono di un muschio azzurro e coprono le fasce fin sui costoni di fronte. Il mare non c’è nemmeno oggi, e in qualche modo le onde degli alberi sostituiscono il contraltare liquido. Risaltano striature di diamanti, sentieri, crepe, da cui emergono gruppi di tetti di ardesia. Al mare di ulivi manca solo il mare, ed è davvero come se fosse nell’aria, nei colori.”

Anche Francesco Biamonti da San Biagio della Cima, dove viveva, non vedeva il mare ma lo avvertiva, al tramonto, nelle striature d’oro e di rame nelle rocce circostanti; e il tramonto è l’ora preferita da Magliani: Il tramonto infiamma il cielo, verso ponente rimane a lungo saldata ai monti un’orlatura chiara e il paesaggio assume sfumature diverse, lo stesso tordo, dice Biamonti, intona la liturgia del tramonto, immagine ripresa in parte da Magliani, allorché accenna al turdus merula come esordio di malinconia celeste. Un paesaggio verticale in cui tra rocce a picco e ulivi argentati si intuisce il mare tra i costoni, contraltari blu in salita, mi è venuto in mente il titolo di un romanzo di Rosella Postorino, Il mare in salita

La Storia, quella con la S maiuscola, c’è (la campagna in Egitto di Napoleone, la battaglia di Marengo, le guerre tra Piemontesi e Genovesi) ma rimane sullo sfondo, anche i riferimenti letterari sono tutti impliciti (accanto a Biamonti e Postorino, anche Giovanni Boine allorché si parla della Liguria come Cattedrale degli ulivi e della sacralità legata a questa pianta), a dominare è la Natura con quel paesaggio scabro, ruvido, scosceso a cui si aggrappano i ricordi e le emozioni.

Non manca l’amore, ma vi entra in sordina, quasi in punta di piedi e per la natura fondamentalmente pudica di Magliani e per non turbare la maestosità del paesaggio e la drammaticità della situazione. L’amore fa capolino nelle esistenze di tutti i personaggi principali di questa vicenda: in Lemoine appartiene al passato ed è connesso al segreto che si porta dietro, in Dumont nasce spontaneo come un fiore di campo, fragile e delicato, per Angiolina che cura i malati di lebbra e di colera nel lazzaretto, in Zomer, e probabilmente in Urruti, assume connotazioni di latente omosessualità.

La toponomastica è precisa e accurata: vallate, paesi, torrenti vengono presentati con i loro nomi e lo stesso avviene per le località della Provenza e dell’Alta Savoia, mi riferisco a Manosque e a Forcalquier, scenari di alcuni romanzi di Pierre Magnan – altro riferimento letterario implicito.

Il suo stile, che potremmo definire prevalentemente nominale in quanto predilige sostantivi e aggettivi, è conciso, sincopato, uno stile verticale come il paesaggio che descrive. La lingua colta e raffinata, nel complesso, non disdegna di attingere al dialetto; il risultato è uno straordinario impasto di suoni e di colori.

Il Cannocchiale del tenente Dumont è, a mio avviso, un libro imprescindibile, da leggere assolutamente.

                                                                                                                  Francesco Improta

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