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Storie del torrente che diventa Torrenta

Le acque dei torrenti vanno in amore? Tenere mani e braccia immerse alcuni minuti nell’acqua di un torrente, davvero alleggerisce i pensieri dolorosi? L’emancipazione delle donne ha tratti di somiglianza con le acque di un torrente? Davvero c’è empatia fra le acque che abbiamo dentro, nel nostro corpo, e quelle che ci scorrono accanto, quando siamo ai bordi di un torrente? E perché quel torrente specifico, quello che nasce sotto il Libro Aperto per poi gettarsi in quel Serchio tanto “caro” ai lucchesi, è possibile declinarlo al femminile chiamandolo dunque la torrenta? E ancora: cosa può essere il petricore? E la profezia di Brache?

Qualche risposta la troviamo in un libro di Federico Pagliai: l’ultimo, per adesso, di uno scrittore impegnato a raccontare storie e personaggi del suo Appennino che chiunque, amante della natura, può però gustare trovandoci dentro elementi generali sull’importanza di fare i conti con le terre alte.

La torrenta. Una storia di acque in risonanza (Tarka, collana Appenninica) ruota attorno al paese del Pagliai: chiunque sia mai stato all’Abetone salendo dal pistoiese o dalla lucchesia, c’è passato per forza dalla Lima (anzi da La Lima): oggi una sorta di borgo fantasma (vivo perché lì si sposano due strade note) ma ieri scenario di una attività imprenditoriale (una cartiera) per l’Ottocento e una parte del Novecento all’avanguardia nei meccanismi produttivi e in quelli sociali.

Il paese dà il nome a questo corso torrentizio che scende dal Libro Aperto e proprio a La Lima piega per entrare in lucchesia passando sotto un ponte “sospeso” e restringendosi per la gioia di canoisti e pescatori.

Pagliai ha percorso a piedi la sua torrenta: dalle gocce luminose della sorgente fino al paese più in ombra d’Italia, appunto La Lima. E racconta storie, leggende, persone, animali, alberi, pietre. Lo fa con l’ormai consueto stile che innamora: parole che arrivano dritte e si fanno ricordare, una ricerca che partendo dall’umiltà e dalla semplicità di storie autentiche porta il lettore sui grandi temi di un oggi così complicato.

Ad esempio come sia facile definirla, l’acqua, bene comune per poi dimenticarlo subito. Ad esempio come sia facile scordare che è proprio questo elemento a formare ciascuno di noi così capaci di avvelenarla, l’acqua che sta fuori noi (ma anche quella che portiamo dentro), con stili di vita assurdi. O, meglio, stupidi.

Dimenticavo il petricore. Definizione, almeno da me, mai prima d’ora sentita eppure notevole esempio di quanto la lingua di ogni giorno potrebbe essere assai più ricca. Si chiama così quel profumo che ha la terra, che hanno le pietre, appena arriva la pioggia dopo un tempo di siccità.

E Brache?Di nome era Elio, ma tutto lo conoscevano con quel soprannome. Abitava, una sessantina di anni fa, sopra Cutigliano. Faceva il fabbro. Con l’acqua di una polla vicino al torrente (cruda e dolce perché solo così avrebbe spento bene gli ardori del metallo senza lasciarci sopra delle caccoline di ferro), raffreddava i suoi ferri. A un certo punto, all’apparenza fuori testa, cominciò a picconare il terreno attorno alla polla: aprì una voragine e la polla, da allora, si nascose senza più uscire. Il motivo di quella scelta? Un sogno.

Per sapere cosa avesse sognato Brache di così terribile, non resta che leggere. Si scoprirà qualcosa di parecchio attuale in un mondo contemporaneo, il nostro, incapace di riflettere sul fatto che noi, del Creato, acqua compresa, non siamo i “padroni” ma solo i “custodi”. Nel nome di chi verrà dopo.

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